Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome.
Ma sbaglio.
Un analfabeta, ci ha ricordato l’OCSE pochi giorni fa, è anche
una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo
status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare
e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella
società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie
conoscenze e potenzialità”.
Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa.
Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a
nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e
propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a
pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non
capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di
un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e
di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un
grafico.
Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.
Tre italiani su 10, ci dice l‘OCSE, si informano (o non si
informano), votano (o non votano), lavorano (o non lavorano), seguendo
soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi,
quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un
evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o
internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione
basilare.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la
crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la
guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il
taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei
servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga
conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine,
lontane per spazio o per tempo.
Sarà che forse sono un po’ analfabeta funzionale anche io, ma
leggendo i dati dell’OCSE ho subito pensato ad un dialogo di qualche
anno fa, tra me e una collega.
All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata
di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in
terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. Ad un certo
punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la
lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose,
candidamente: Grazie, ma io non leggo libri.
Mai? chiesi.
Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la
maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per
leggere, e poi mi annoio.
Davanti ai dati dell’OCSE l’ex Ministro Carrozza si è affrettata a
sottolinearne la drammaticità chiedendo una forte inversione di
tendenza.
Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento
dell’attuale Governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a
dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani,
se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone
di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei
propri impiegati, o della propria classe?
Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e
l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri
politici.
La scuola italiana, da sempre fondata sul dogmatismo, ha visto
annullate le proprie spinte verso un insegnamento diverso, riducendosi
alla trasmissione di competenze inutili, perché si dimenticano il giorno
dopo l’interrogazione, e che non insegnano a capire, ad analizzare, a
criticare, a soppesare, a riassumere.
Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: Napoleone
Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del
1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel
settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso
generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse
imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte
queste date, sarà bocciato!
Dal 1974 le cose, se possibile, sono generalmente peggiorate.
I parametri Invalsi – lo strumento Europeo per la valutazione delle
competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la
scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza
dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.
Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i
quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo
nel Sud Italia)?
Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un
cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di
scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la
scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte
economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità.
Per rispondere all’allarme dell’OCSE questo paese deve ribaltare il concetto stesso di competenza.
Una scuola dogmatica è una scuola che respinge, e che insegna senza insegnare.
Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una
scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di
comprensione del mondo.
Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte
nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re
d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed
analizzare la complessità della società in cui vive.
E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge –
quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria
– rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la
guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.
fonte
http://www.wired.it/play/cultura/2014/04/11/nuovi-analfabeti-usano-facebook-ma-non-sanno-interpretare-la-realta/